sabato 8 settembre 2012

La domanda che torna a proposito di guerra

Piero Jahier fu tra quegli intellettuali - in effetti, non pochi - che nel corso della Grande Guerra si arruolarono come volontari. Quando si presentò al Comando, impacciato nella sua nuova uniforme, gli venne da pensare alla vita che stava consegnando all'esercito: prendetela pure, ma spendetela bene.

Difficile pensare che ci sia modo di spendere bene una vita in guerra. Però Jahier aveva assai poco a che spartire con il manipolo dei vari Papini, Marinetti, D'Annunzio, le belle anime che cantarono la guerra come una festa o un'occasione di igiene. Appuntamento da buongustai, come declamarono, bagno di sangue da amare con cuore di maschi.

Le trincee, oltre a tante vite, fecero strage (questa sì meritata) di tante di queste parole.

Jahier no, Jahier non si inventò un'estetica della guerra. La guerra, semmai, fu ricerca di una condivisione, di una storia comune, di una sofferenza da spartire.

Non se ne pentì perché in effetti non ebbe molto di cui pentirsi.

E ancora ci arriva una delle domande che popolano questo Con me e con gli Alpini (Mursia), diario di guerra che si fa raccolta di poesie e prose. La domanda che torna, appunto:

Perché alcuni son chiamati a lavorare e guadagnar sulla guerra, e altri a morire?

Domanda buona per ogni guerra, domanda che ancora incalza la sua risposta.

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