lunedì 2 agosto 2010

La Siberia e quel piccolo grande uomo della taiga

Ieri sera - una domenica molto pigra, lo so - mi è capitato di vedere in televisione qualche immagine della Siberia. Così è stato più che naturale ripensare a un piccolo grande abitante della Siberia protagonista di un film straordinario, che io identifico spesso con quella sterminata terra. Di lui parlo in questo brano, tratto da Caduti dal Muro, scritto per Vallecchi con Tito Barbini.


Questa la tua Siberia. E la mia?
La mia è essenzialmente un film di una trentina di anni fa, opera del grandissimo regista giapponese Akira Kurosawa, che mi è entrato nel cuore e non l’ha più abbandonato.
Titolo impenetrabile come una formula alchemica: “Dersu Uzala”. Che poi è il nome di un uomo delle praterie, un cacciatore della taiga.
Siamo ai primi del Novecento, allo stesso modo dei “visi pallidi” nelle praterie americane, i russi si stanno spingendo avanti. Verso est, e non verso ovest, ma questo poco importa. Hanno i soliti metodi brutali di ogni civiltà che si sente superiore, tanto superiore da poter avanzare senza guardare che cosa le rimane tra i piedi.
I russi travolgono e cancellano i popoli che da sempre vivono in Siberia. Cercano metalli preziosi e intanto fanno fortuna con le pelli degli ermellini e degli altri animali dalla taiga.
Dersu Uzala si trova ad accompagnare due spedizioni scientifiche, a distanza di qualche anno l’una dall’altra. I russi, e soprattutto il loro comandante, il dottor Arseniev, sono conquistati da quel “piccolo grande uomo”. Ne ammirano l’incredibile capacità di orientamento e l’infallibilità nel tiro, ma a incantarli sono soprattutto la semplicità, la taciturna dolcezza, la singolare forza d’animo.
Dersu Uzala è un figlio della taiga, un figlio che non ha voltato le spalle a chi gli ha dato la vita. E la sua vita ha qualcosa del respiro universale: Dersu Uzala in realtà è la taiga, appartiene alla taiga.
Dopo la seconda spedizione il dottor Arseniev decide di portarselo con sé in città. L’uomo delle praterie non può più vivere da solo, la taiga è cambiata, lui stesso è cambiato: i suoi occhi sono ormai troppo deboli, per cacciare, per difendersi. E’ un suo amico: vivrà con lui, assieme alla sua famiglia.
Però la vita di città non fa per lui. Dersu Uzala  trascorre le sue giornate a intristirsi davanti a un camino acceso. No, non fa per lui quella prigione dorata.
Tornerà alla sua taiga, ai suoi spazi sconfinati, alla sua libertà di nomade. Tornerà per farsi ammazzare, fragile vecchio che del mondo intravede ormai solo ombre. E non lo vedi, ma l’ultimo suo istante te lo immagini consegnato a un sorriso lieve e alla gratitudine di una preghiera. 
Dersu Uzala: una storia vera. Una storia che non mi aspettavo. Una storia di libertà che, mi pare, ci aiuta a comprendere che non ci sono terre più o meno buone, siamo solo noi a illuminarle o a stendervi ombra con la nostra vita, noi a farne qualcosa di simile a un paradiso o a un inferno.
Perché anche la Siberia è, potrebbe essere, un buon luogo da abitare. Perché no?

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