mercoledì 14 gennaio 2015

Lo schiavo e il suo padrone nell'Istanbul dei sultani

Come se la mia vita, sfuggita al mio controllo, in mano sua si trascinasse altrove, e io non potessi porvi altro rimedio che quello di seguire da lontano le mie vicende, come in sogno.

Siamo nel Seicento, età di eserciti in movimento, corsari in mare, filosofi, mistici, poeti a caccia di risposte sulle domande ultime della nostra vita. Un gentiluomo italiano viene fatto prigioniero dai turchi e ridotto in schiavitù. Servirà un astrologo di Istanbul, figura importante alla corte del sultano, ambiente in cui è facile ottenere grandi onori un giorno e finire impalato l'indomani.

Si assomigliano come due gocce d'acqua, lo schiavo e il suo padrone, però in ballo non c'è solo la somiglianza fisica. Come fratelli gemelli le loro vite si sovrappongono e si confondono. Si guardano con sospetto, ma intanto condividono e scambiano i loro ricordi. E alla fine chi sarà chi?

E' questa la storia che Orhan Pamuk narra ne Il castello bianco (Einaudi), romanzo breve ma denso, romanzo che propone ancora una volta il tema del doppio, per sospingerlo verso latitudini meno battute. Certo, qui dentro cè tutta la fragilità delle nostre identità, che mentre si aggrappano ai nomi sembrano fatte della stessa consistenza dei sogni (e a proposito del Seicento, riferimento d'obbligo per La vita è sogno di Pedro Calderón de La Barca).

Però qui c'è anche altro: il gentiluomo e l'astrologo, lo schiavo e il padrone, sono anche una metafora dell'Occidente e dell'Oriente, della loro relazione complessa e mai risolta, ma anche fertile. Cosa saremmo, senza di essa?

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