mercoledì 25 settembre 2013

Tra Fellini e Charlie Chaplin, ai tempi del circo

Sapete, stamattina lo sguardo mi è cascato su un libriccino che raccontava  la storia del Gratta, al secolo Evaristo Caroli. Del Gratta e del suo piccolo circo fatto di niente che per i fiorentini era sinonimo di spensieratezza. 

Erano gli stessi anni in cui Cicoria era in circolazione. Il Gratta faceva il clown e introduceva i vari numeri sotto il tendone che d'inverno prendeva posto in via Pietrapiana, dove in seguito saranno costruiti gli uffici postali. Non c'era la televisione e un'arena improvvisata poteva regalare il giorno più bello della vita, qualcosa di simile a un sogno.

 Quante risate con il Gratta, sotto quel tendone, quanti amori sbocciati in quelle serate in cui finalmente non c'era da avere paura della guerra. Quanti bambini capaci di toccare il cielo con il dito.

E io mi immagino questa scena, mi immagino il babbo che questa volta c'è e che ha deciso di regalare un'emozione speciale ai suoi bambini. A tutti e tre, insieme. Me li vedo sbucare sotto il tendone, la meraviglia negli occhi e magari una nuvola di zucchero filato a testa, perché se è festa lo sia in tutto e per tutto. 

E suvvia inizia lo spettacolo. Gli acrobati, il lancio dei coltelli, le enormi scarpe da pagliaccio. La torre umana e la piramide dei bicchieri. Il trapezio, con quei corpi morbidi che si librano in aria. La mimica facciale, i giochi di parole. La ragazza che si contorce come un'anaconda, mantenendo in perfetto equilibrio un bicchiere sulla fronte e uno sul mento. E lo sguardo del babbo che si fa particolarmente attento, non per le contorsioni, ma per le gambe, perché in quale altro posto in Italia si può vedere una bella ragazza così, con le calze a rete.

Che giorno è quello: e sono tutti e tre insieme.

Così li vorrei vedere. E vorrei che fossero queste le immagini che nell'avvenire si porteranno dietro. Allo stesso modo dei film muti di Charlie Chaplin, che non ci si stanca di rivedere.

Se mi scuoto, certo, svaniscono queste immagini, fatte dello stesso tessuto del sogno. Però arrivato a questo punto penso che tra il sogno e il ricordo non ci sia poi tutta quella differenza. Entrambi sono impalpabili ed evanescenti. Entrambi durano solo nella misura in cui ci ostiniamo a trattenerli.

E vale per il sogno quello che per il ricordo affermava Khalil Gibran, un grande poeta le cui parole sanno di mare e di lontananza:

Il ricordo è un modo di incontrarsi. 

(Paolo Ciampi, da Il babbo era un ladro, Romano editore)

Nessun commento:

Posta un commento

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...