lunedì 13 maggio 2013

A proposito del processo del signor K.

Un giorno K. è invitato (da una voce anonima, per telefono) a presentarsi la domenica successiva in una casa di periferia per partecipare a una breve inchiesta che lo riguarda.

Per non complicare e tanto meno prolungare il processo, decide di ottemperare all'invito. Dunque ci va.

Sebbene non sia stato convocato a un'ora precisa si affretta. All'inizio vuole prendere un tramvai. Poi si rifiuta per non umiliarsi, grazie a una puntualità troppo docile, davanti ai suoi giudici.

Tuttavia non desidera prolungare lo svolgimento del processo e perciò si mette a correre; sì, corre (nell'originale tedesco la parola "correre", "laufen", si ripete tre volte nello stesso paragrafo); corre perché vuole salvare la sua dignità e, allo stesso tempo, per non arrivare in ritardo a un appuntamento la cui ora resta sconosciuta.

Tale combinazione di gravità e leggerezza, di comicità e tristezza, di senso e non senso, accompagna tutto il romando fino all'esecuzione di K. e fa nascere una bellezza strana e incomparabile; mi piacerebbe definire questa bellezza, ma so che non ci riuscirò mai.

(da Milan Kundera, Il mio Processo. L'insostenibile bellezza del romanzo di Kafka, da Repubblica del 13 aprile)


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