mercoledì 14 novembre 2012

Quando Darwin smise di leggere Shakespeare

La domanda non è originale, ma vera e tale rimane anche se più volte me la sono posta: perché gli scienziati spesso e volentieri finiscono per voltare le spalle alla letteratura e all'arte?

(ovviamente vale anche il contrario: perché gli artisti e i letterati spesso e volentieri si dimostrano allergici alla scienza?)

Domanda che mi è balzata di nuovo incontro la scorsa domenica, leggendo la splendida pagina che su Repubblica Alessandro Baricco ha dedicato all'Autobiografia di Charles Darwin. C'è un passo, di Darwin e non di Baricco, che mi ha particolarmente colpito:

La mia mente sembra diventata una specie di macchina per estrarre delle leggi generali da una vasta raccolta di fatti, ma non riesco a capire perché ciò debba aver causato l'atrofia di quella parte del cervello da cui dipende il gusto estetico.

Da ragazzo Darwin era uno che leggeva Shakespeare e che si faceva conquistare da quelle pagine. Ma ora il giudizio su Shakespeare è terribile: lo trovo così insopportabilmente pesante da trarne disgusto. Che cosa è successo in mezzo, a parte il fatto che è diventato  lo scienziato che ha rivoluzionato le nostre idee?

Non ho letto l'autobiografia, mi sembra di capire che da essa emerga la figura di un uomo sereno, tutto sommato in pace con se stesso. Però proprio su questo si avverte un crampo di rimpianto:

La perdita di questi gusti è una perdita di felicità.

Ed eccolo Darwin, il grande scienziato, eccolo che si guarda indietro, senza che possa davvero tornare indietro, ecco ripromettersi ciò che non potrà più fare: se vivessi un'altra volta, mi costringerei a leggere poesia e ascoltare musica almeno una volta alla settimana.

Per non perdere questi gusti. Per non perdere la felicità. In un'altra vita.

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