domenica 6 novembre 2011

Quel concerto dei Muse per ricordare altri tempi

È così, appena la chitarra elettrica rovescia le prime note e le luci cominciano i loro giochi, sento dilagarmi un fiotto di gioia. Sono contento di essere dove sono e contento della mia contentezza. Pensare che fino all’ultimo ho cercato mille pretesti per non esserci. Uno dei miei consueti tira e molla mentali.
 

Meno male che per una volta mi sono scrollato di dosso ogni esitazione e ora sono qui, tra i molti che affollano il Piazzale Michelangelo.
 

Ci sono i Muse, sul palco, uno di quei gruppi che da qualche tempo scalano le hit con il beneplacito della critica. Concerto maledettamente giovane, sicuro. Nemmeno ci ho provato a proporlo ai miei amici. Muse? E che roba è? Più facile tentare con una serata di revival di qualche rockstar ormai sopra i sessanta, che so io, David Bowie oppure Mick Jagger.
 

A guardarmi dall'esterno sono proprio un fuori quota, un mezzo intruso tra i tanti ragazzini che fanno ressa sotto il palco, saltano, ballano, accompagnano i refrain delle canzoni più gettonate.
 

Però la cosa non mi disturba, non sento i loro occhi addosso. Tutti si fanno i fatti loro e non si scompongono di fronte a uno che potrebbero catalogare come un genitore sguinzagliato a fare il cane da guardia.
Alla loro età io ero senz’altro più diffidente, più pronto a distribuire la gente di qua e di là: noi e voi.
 

Sono belli questi ragazzi e forse ai tempi ero bello anch’io.
 

E c’è Firenze sdraiata sotto i miei occhi. L’aria di primavera è una flebo di serenità; questa sera è così dolce che posso ripensarmi ventenne senza formicolii di inquietudine.
 

Anch’io mi lasciavo attraversare dalla musica, anch’io mi inebriavo di suoni e di alcol, di amici e di concerti allo stadio.
 

E no, ovviamente, non ero felice.
 

Da onesto cronista di me stesso, dovrei mettere in fila tutte le sbornie tristi, le notti di pensieri cupi, anche i concerti in cui non riuscivo a sopportare la mia solitudine in mezzo a una folla esageratamente piena di ragazze inavvicinabili.
 

Più che infelice. Allevavo l’infelicità e la sbandieravo con le parole di Paul Nizan. «Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che è l’età più bella».
 

Però, insomma, pure in tutto quel penare c’era una percezione di eternità, più forte di qualsiasi presagio di pericolo. Perché c’ero io, c’era la mia giovinezza.

Sì, ero bello, anche se mi degnavano poco.
 

Ma come si scatenano, i Muse. La loro musica mi piove addosso con una irresistibile valanga di suoni che si mescolano alle luci, alle onde della gente, all’odore della cannabis reso più pungente dal sudore.

Tutto sembra conservare ancora un luccichio di quell’eternità.


(da Paolo Ciampi, Una domenica come le altre, Mauro Pagliai editore)

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