lunedì 14 marzo 2011

Lo scrittore che beveva per ricordare l'Italia da fare

Luciano Bianciardi, quello scrittore insofferente e anarchico? Che cosa aveva a che fare lui con il Risorgimento?

Questa, in effetti, è la prima cosa che verrebbe da chiedersi, non fosse che poi si sa, si sa che Luciano Bianciardi ha scritto più di un libro dedicato a Giuseppe Garibaldi e agli altri che costruirono l'Italia. Solo che una cosa è ricordare date e titoli, un'altra cercare di capire perché.

Ci ha provato Marco Cicala, con un bellissimo articolo sul Venerdì di Repubblica, dove dice, tra l'altro, dell'autore della Vita agra:

Aveva compresso i chilotoni d'una toscanissima e libertaria incazzatura contro i 'mala tempora', nella condizione del provinciale inurbato, dell'intellettuale burocratizzato, proletarizzato dentro i dispositivi dell'industria culturale; oscuro traduttore a cottimo per Feltrinelli, in una macilenta bohème milanese che lo vide disadattato, guascone, ramengo, succube e fegatoso. Beveva moltissimo - ma per ricordare. Cosa? L'infanzia. Sua e del Paese. Un posto di cui amava le minoranze, gli emarginati storici, i rimossi culturali, i contadini, i minatori, i bambini e gli animali

C'è tutto Bianciardi in queste parole. Il Bianciardi rimasto fedele alle letture adolescenziali di Emilio Salgari, che in Garibaldi intravedeva una sorta di Sandokan nostrano. Il Bianciardi convinto che l'Italia andava amata per quello che avrebbe potuto essere, non fosse stata troppe volte tradita.

Il Bianciardi che magari si portava anche questo rimpianto, tra i molti altri, quello di non esser vissuto ai tempi dei Mille, così da vivere anche lui l'epopea di quell'esercito straccione, il più colto che la storia ricordi, con i suoi avvocati, medici, giornalisti, strampalati spacciatori di sogni.


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