martedì 1 marzo 2011

Il poeta che cantò in diretta la morte del suo popolo



Perché? Nessuno sulla terra se lo chiede, eppure tutto domanda perché. Ascoltate, ascoltate!
Ogni casa deserta, ogni muro in mille città e villaggi chiede:
perché? Ascoltate, ascoltate, poiché quelle case non resteranno a lungo deserte -
un altro popolo, altra gente le occuperà, un'altra lingua, altre notti e altri giorni

E' un libro crudele, Il canto del popolo ebraico massacrato di Yitzak Katzenelson, un libro che è come una ferita aperta e per questo anche un libro necessario. Perché è poesia che si fa canto di sofferenza, orazione funebre, domanda scagliata verso Dio, urlo incredulo, invettiva. Perché è poesia che vale come testimonianza, strappata alla propria anima nei giorni stessi in cui la macchina dello sterminio spinge al massimo. Perché è poesia che rinnova lo voce dei profeti biblici per scagliarsi contro il crimine dei crimini.

La Giuntina - straordinaria casa editrice della memoria - lo ha pubblicato qualche anno fa, io l'ho letto solo qualche settimana fa. In ritardo, ma facendo sì che questo canto mi arrivasse dentro, mi risuonasse come un grido in una grotta.

Di esso diceva Primo Levi:

Qui è Giobbe che parla, un Giobbe moderno più vero e compiuto dell'antico, ferito a morte nelle sue cose più care

E dice anche:

Davanti al "cantare" di Yitzkah Katzenelson ogni lettore non può che arrestarsi turbato e reverente. Non è paragonabile ad alcun'altra opera nella storia di tutte le letterature: è la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente

Gli hanno già portato via la moglie e i suoi due figli più piccoli. Sa che presto toccherà anche a lui. In questa attesa scrive, perché scrivere è l'unico modo per non uscire pazzo. Scrive anche il suo ultimo dramma, rimasto incompiuto, che parla di Annibale e della distruzione di Cartagine

Scrive prima di sparire nel campo di sterminio. Scrive perché come il poeta con cui inizia il canto bisogna prendere l'arpa e cantare l'ultimo canto degli ultimi ebrei in terra d'Europa.

E' rimasto lui per cantare quel mondo che non c'è più, quel mondo dei villaggi dell'Europa orientale, quel mondo dove c'era sempre un rabbino e dove al mercato si parlava in yiddish.

Lui con le sue parole. E noi con il nostro dovere di leggerle e di farne tesoro.

1 commento:

  1. Sì ma uffa! Ma non posso ogni volta rimpinguare il mio elenco di libri da leggere :-)

    E.

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