venerdì 25 giugno 2010

Franzen e l'amore che si tiene a distanza


Ci sono libri belli di cui ti vien voglia di scrivere fiumi di parole, fosse solo per condividere il piacere di quella lettura. Ci sono libri bellissimi di cui invece non ti senti capace di dire praticamente niente, sarà che dovresti dire troppo, sarà che ti sembra di sciupare qualcosa, sarà che in effetti non c'è niente da aggiungere e l'unica cosa che puoi fare davvero è un'opera di sottrazione, per lasciare che parli solo il libro, direttamente, senza filtri.

Le correzioni di Jonathan Franzen per me è un libro così. Un libro che mi ha regalato emozioni che da tempo non provavo e di cui non riesco a parlare, sarà che per parlarne in realtà dovrei parlare di me stesso.

In queste pagine ho visto la mia vita e la vita di tante persone che mi sono vicine. Ci ho trovato il mondo di oggi, la sua economia, la cultura che va per la maggiore. Allo stesso tempo sono entrato prepotentemente dentro la storia di una famiglia, inferno e squarci di tenerezza.

Pensare che per anni è rimasto dalle parti basse della pila di libri "in attesa di lettura", come una pratica burocratica che si cerca di non evadere, rimandandola alle calende greche. Una volta l'avevo perfino attaccato, due o tre paginette di approccio e poi l'immediata resa, per pigrizia: troppe pagine, caratteri troppo fitti, e poi che sarà mai, solo un altro buon scrittore americano.

(a dimostrazione che ogni libro ha il suo tempo. Mi era successo anche con l'Ulisse di Joyce)

Poi ho scoperto che Le correzioni aveva la dimensione ideale per un viaggio in aereo e una vacanzina in bicicletta. Ora l'ho finito da qualche giorno ed è sempre qui, accanto al mio computer. Non ho il coraggio di rimetterlo sullo scaffale.

Rifletto sulle "correzioni" del titolo, sulle traiettorie che non sempre sono quelle di una palla di biliardo, sui diversi movimenti che a volte dovremmo imprimere alle nostre vite, sulla triste constatazione che quasi sempre non siamo noi a correggere la vita, piuttosto è la vita che ci corregge: refuso da cancellare, variabile dipendente, discolo da rimettere in riga.

Ma soprattutto mi lascio ancora accompagnare dai personaggi di questa famiglia che Franzen racconta per quasi seicento pagine fitte fitte. Sono ancora con me i figli, Gary, Chip, Denise, sono con me la madre Enid, il padre Alfred. Soprattutto quest'ultimo direi, l'arcigno, impenetrabile, insopportabile Alfred, l'uomo chiuso nella torre d'avorio dei suoi principi e allo stesso tempo inerme nella sua malattia.

Ricordo una frase:

Quelle erano sere, e ce n'erano state centinaia, forse migliaia, in cui nulla di così traumatico da lasciare era accaduto al nucleo famigliare. Sere di semplice intimità alla vaniglia sulla poltrona di pelle nera; dolci sere di dubbio tra notti di squallida certezza. Gli venivano in mente adesso, quei controesempi dimenticati, perché alla fine, quando si stava cadendo in acqua, l'unica cosa solida a cui aggrapparsi erano i figli

E soprattutto un'altra (buffo, leggendo qualche commento su Anobii, in diversi hanno pescato proprio queste due righe nelle seicento pagine, qualcosa vorrà dire)

La strana verità su Alfred era che l'amore, per lui, non era questione di avvicinarsi, ma di tenersi a distanza


Quanta verità, in questa strana verità. Ma qui mi fermo, perché di questo libro sto già parlando.

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