martedì 16 giugno 2009

Quando Filippo ritornò da Algeri


Capita che i personaggi dei libri ogni tanto tornino a bussare a sorpresa alla tua porta,come un amico che non rivedi da tantissimo tempo, che forse si è addirittura trasferito in un'altra città. A me oggi è successo con Filippo Pananti, un poeta toscano "minore" a cui qualche anno fa ho dedicato un piccolo libro (Il Poeta e i pirati, edizioni Polistampa), più noto forse per essere stato portato schiavo ad Algeri dai pirati del Mediterraneo che per i suoi versi. Mi piace ricordarlo con una pagina che racconta la sua vita dopo la liberazione.


Gli anni che gli restano da vivere sono ancora molti, ma Filippo il tempo sa bene come ammazzarlo, sa come esorcizzare il male di vivere, come scampare alle ambizioni, agli impegni che ti impigliano e ti stritolano, allo stesso modo di Charlie Chaplin catturato dalle ruote dentate di Tempi Moderni. La sua è una lunga, dolce eutanasia.
Così lascia sfilare i giorni come i libri che divora uno dietro l’altro, esempio concreto di quello che Montesquieu diceva della lettura quale pigrizia travestita. Quando non legge inganna le ore riempiendo fogli e fogli di piccole prose.
Sono pagine in cui prende le difese del riso che, per dirla con Buffon, è la qualità distintiva dell’uomo, e per dirla con Yorick, allunga d’un dito la misura della nostra esistenza; dello sbadiglio, che annunzia il placido sonno, il dolce risvegliamento, il salutare appetito, la felice sazietà; della notte, benefattrice di tutto ciò che respira, che per gl’infelici è il fine delle fatiche, per i felici il cominciare dei piaceri; del vivere in campagna e del perdono.
Alcune cronache, però, ce lo ricordano impegnato soprattutto a ravvivare brigate di amici per intere serate, una battuta dietro l’altra, un verso improvvisato che scappa e uno che gli va dietro, e così a trascorrere le ore, magari davanti al fuoco di un caminetto, magari con qualche castagna a cuocere e parecchio vino da spartirsi. E' quello che ha sempre voluto, con i cari amici al caro loco viver temprando il verno al proprio fuoco.
Sono le veglie di uno zio un po’ stravagante, accattivante già nell’aspetto, con il suo naso acquilino, gli occhi vivacissimi, i capelli crespi che prendono sempre la piega sbagliata, gli abiti che più semplici non si può, con l’unico vezzo di un fazzoletto bianco sempre avvolto intorno al collo. Scapolone tanto sciolto di lingua, quanto impacciato nei doveri del tran-tran quotidiano, con la sua memorabile distrazione, lui che non riesce mai a segnarsi o a ricordarsi una data, e che talvolta si dimentica persino di firmare le proprie lettere.
Il tempo, da parte sua, gli concede di riflettere lungamente sulla vita, sul bene e sul male che questa gli ha portato e che lui ha colto. Può predisporsi alla morte con tutta calma, privilegio raro, dispiaciuto solo di non saperne in anticipo l'ora.

La morte sarebbe allora come una cosa lungamente meditata... arriverebbe allora come un viaggiatore, a cui si è preparato il letto.

Non ne ha mai saputo nulla, ma sono sicuro che gli sarebbe piaciuto da matti il passo leggero con cui monaci e poeti giapponesi attraversano il mondo fluttuante. Sostituite il sakè con un buon Chianti, gli aceri con i castagni: allora le parole di Ryoi, letterato all'altro capo del mondo, sono le sue parole, la vita che ha chiesto e che alla fine ha avuto.

Volgersi alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere saké, consolarsi dimenticando la realtà.

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